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I corsari barbareschi - Le torri dell'Argentario - La guardia

Pirati e corsari

Sul mare, come sulla terraferma, bande di predoni più o meno organizzate e con diverse strategie, sono sempre esistite. Gli individui che ne facevano parte, talvolta chiamati bucanieri, filibustieri, ecc. , erano accomunati dallo stesso nome: pirati.

Assalivano in maniera disorganica ed indifferenziata le navi commerciali che solcavano il mare, razziandole del loro carico e prendendo prigionieri per la cui liberazione chiedevano poi consistenti somme di denaro.

A volte questi predoni del mare compivano piccole scorrerie nell’entroterra, devastando masserie e villaggi costieri privi di protezione.

Jan Luyken - Histoire de Barberie

Una volta catturati i pirati venivano sommariamente impiccati e lasciati penzolare all'estremità di un pennone come salutare ammonimento per chi fosse stato tentato dall''intraprendere una simile attività.

Dal XV secolo in poi ci fu una evoluzione nel mondo della pirateria.

Anzichè agire da soli e senza un minimo appiglio “legalitario” i pirati cercarono ed ottennero la copertura di qualche sovrano o governo regolarmente costituito.

Tale copertura veniva data mediante una lettera di marca, altrimenti chiamata lettera di corsa, che consentiva loro di arrembare navi mercantili di altri stati con cui era in atto una guerra o controversie territoriali o di altro genere.

Di fatto i pirati erano “arruolati” nella marineria di quello stato e si trasformavano in corsari al suo servizio: potevano svolgere la stessa attività di prima, ricavandone un grosso profitto, ed evitando, teoricamente, lo sgraditissimo rischio di penzolare per qualche giorno da un pennone.

Lettera di corsa

I governi che concedevano tale copertura traevano ovviamente un vantaggio da tale arruolamento, sia da un punto di vista militare e commerciale, sia, più direttamente, perchè i corsari dovevano in qualche modo ripagare la protezione e l'assistenza fornite versando nelle loro casse parte del bottino e dei riscatti.

Corsari hanno agito in tutti i tempi, con modalità e scopi diversi, sui mari di mezzo mondo. La stessa Germania, ad esempio, ha avuto, nella prima e seconda guerra mondiale alcune navi, tra cui le famose SMS Seeadler ed Atlantis che hanno operato con modalità corsare contro navi civili nemiche.

 

I corsari barbareschi

Dal XIV al XVIII secolo il Mediterraneo è stato teatro della più intensa e sanguinaria attività corsara che il mondo occidentale abbia mai conosciuto: quella turco-barbaresca. Essa ha condizionato fortemente per cinque secoli ogni attività umana sul mare e sulle coste apportando indicibili sofferenze ad un numero elevatissimo di individui.

La caratteristica che ha contraddistinto questa attività corsara differenziandola da tutte le altre e l'ha resa così aggressiva ed estesa è stata la forte connotazione religiosa di un Islam intransigente ed in forte espansione (Dragut, uno dei maggiori e più feroci ammiragli corsari, amava definirsi "spada vendicatrice dell'Islam").

I corsari musulmani che la praticarono, autorizzati e sostenuti, direttamente o indirettamente, dallo Stato Ottomano, agirono esclusivamente contro obiettivi cristiani e sempre in linea con gli interessi della Sublime Porta.

Ariadeno Barbarossa

Dragut

Essi appartenevano generalmente alle marinerie degli stati barbareschi dell'Africa mediterranea, principalmente Tunisi, Algeri e Tripoli (il Marocco, pur rientrando tra questi, differiva dagli altri in quanto costituito ad impero con proprie dinastie di regnanti).

Questi stati vassallo, creati dallo Stato Ottomano nella sua espansione sulle coste mediterranee, erano governati da un bey locale e godevano di grande autonomia amministrativa e militare. Per essi gli introiti derivanti dall'attività corsara delle loro marinerie era una fonte essenziale di benessere, se non addirittura di sopravvivenza.

Per contrastare le incursioni dei corsari barbareschi i paesi europei dell'altra sponda del Mediterraneo dovettero dispiegare enormi energie.

Queste furono profuse nella costruzione di imponenti reti di torri di avvistamento e fortezze sulle coste, perlustrazione dei mari e sorveglianza delle rotte e, a partire dalla fine del XVI secolo, nella costituzione di Ordini Cavallereschi, quali quello dei Cavalieri di Malta o di Santo Stefano, con il compito specifico di dar la caccia ai corsari.

Lo Stato Ottomano si avvalse fortemente del contributo delle flotte corsare nella sua guerra di espansione sul mare. Queste si amalgamarono a tal punto nella marineria istituzionale di quello stato da diventare con il tempo parte organica di essa. Nella famosa battaglia di Lepanto gran parte delle navi della flotta turca di Mehmet Alì Pascià erano di corsari barbareschi.

Anche gli ammiragli, come Ariadeno Barbarossa, Dragut e Sinam Pascià, godevano della massima considerazione nei loro paesi e ad Instanbul erano ricolmati di onori e di ricchezze.

Ariademo Barbarossa fu sepolto con grandi onori in uno splendido mausoleo a Besiktas, e per molti anni dopo la sua morte, nessuna nave turca lasciò il Bosforo senza sparare un colpo di artiglieria in segno di saluto.

E' da sottolineare che i più valenti e feroci comandanti corsari erano generalmente cristiani rinnegati (come lo erano i giannizzeri sulla terraferma). Di questi molti erano stati rapiti da fanciulli, convertiti all'Islam e poi iniziati al mestiere della corsa.

Non si dimentichi però che anche stati europei, come la cattolicissima Spagna e la Francia soprattutto, ricorsero o appoggiarono talvolta tale abominevole forma di guerra. Del resto è nota la cosiddetta “empia alleanza” tra la Francia e lo Stato Ottomano per cui la prima, pur di contendere alla Spagna il primato nel Mediterraneo, si impegnava a non contrastare o addirittura a fornire un aiuto discreto ai navigli corsari musulmani. Francesco I di Francia cedette, nel 1536, a Solimano il Magnifico la base navale di Tolone, avamposto strategico per Barbarossa e i suoi uomini.

Navi

La nave caratteristica dei navigli corsari era la galera ( o galea).

Essa era di forma snella, con un gran numero di rematori sui due fianchi e montava due alberi con vele latine.

Galera

Le dimensioni potevano arrivare ad una lunghezza di 50 metri per una larghezza di 7.

La galera era dotata di un castello di prua ed uno poppiero.

Il primo consisteva schematicamente in una piattaforma dove si raccoglievano i picchieri per l'arrembaggio delle navi nemiche e per la difesa della propria.

Il secondo, coperto e più accogliente, ospitava il rais e gli ufficiali.

Sulla coperta erano sistemati i banchi per i rematori, da 20 a 30 per ogni lato. Due  o tre uomini provvedevano all’azionamento di ogni singolo remo.

Su ciascun bordo, al disopra dei rematori, vi era un lungo e stretto corridoio, detto balestriera, sul quale si disponevano i balestrieri e gli arcieri, sostituiti poi, con l'avvento della armi da fuoco, dagli archibugieri.

Al centro della nave e sopra le due file di rematori vi era una corsia dove si muovevano gli alguazil, i sorveglianti (da cui il nostro aguzzini), che dovevano dare il tempo ai rematori e stimolarli alla voga a suon di frustate.

A prua della galera un rostro metallico avrebbe consentito, come estrema risorsa, di sfondare il fasciame della nave avversaria .

La potenza di fuoco, alquanto limitata, proveniva da qualche pezzo di artiglieria prodiero di difficile manovrabilità.

Sottocoperta venivano stivate le vettovaglie e la scorta d'acqua necessarie all'equipaggio. Queste erano in quantità strettamente indispensabile ad una limitata autonomia, per non appesantire la nave e pregiudicare l’agilità e la facilità di manovra.

Gli uomini a bordo, rematori compresi, potevano variare da 100 a 200, a seconda delle dimensioni della galera, a cui si aggiungevano 100-200 soldati in occasione di scontri navali.

La galera fu una nave molto impiegata in tutte le marinerie. Molto apprezzate erano la sua agilità e la manovrabilità anche in assenza di vento ed il basso profilo che la rendeva poco vulnerabile al fuoco nemico. Di contro, la sua snellezza la rendeva inidonea ad affrontare condizioni avverse di vento e di mare, per cui fu quasi sempre impiegata nel Mediterraneo per navigazione sotto costa e preferibilmente in buone condizioni di stagione.

 

Gli schiavi a bordo delle galere

Inizialmente i rematori delle galere erano uomini liberi, come il resto dell'equipaggio; ma ben presto furono sostituiti da schiavi, prigionieri di guerra o prede di razzie, e da condannati, i quali, in navigazione, erano tenuti incatenati al banco di voga. Sulle galere cristiane vi era però quasi sempre un gruppo di rematori liberi, volontari e perciò chiamati bonavoglia, che, come distintivo, portavano i baffi, mentre i condannati avevano testa e viso completamente rasati; gli schiavi portavano in più, al sommo della testa, un caratteristico ciuffo di capelli. I bonavoglia non erano tenuti incatenati al remo, anzi di giorno godevano di una certa libertà e in porto potevano talora avere anche il permesso di scendere a terra.

La vita degli schiavi al remo era del tutto disumana. Coloro che osavano ribellarsi, venivano sommariamente seviziati, torturati e poi gettati in mare.

Quel banco a cui erano incatenati era tutto il loro mondo. Lì mangiavano, dormivano e defecavano. Il vitto era scarso ed orribile: veniva loro somministrato la sera così che non vedessero quello che mangiavano.

Il fetore a bordo era insopportabile, così forte che, come già riportavano storici romani, da questo si poteva intuire la presenza della nave nelle immediate vicinanze.

Si pensi a 100-200 persone in condizioni igieniche inimmaginabili costrette a vivere in pochi metri quadrati per settimane.

 

La fusta (o galeotta) era una galera di più piccole dimensioni,ad un solo albero con vela latina, più slanciata, veloce e con minor pescaggio. Poteva avere fino a 18 banchi per lato ed arrivare ad una lunghezza di poco superiore ai 30 metri. Considerate le sue modeste dimensioni non aveva un contingente di soldati regolarmente imbarcato. Erano gli stessi rematori che, all'occorrenza, lasciavano il remo ed impugnavano le armi.

Particolarmente utilizzati, soprattutto dal XVII secolo in poi, furono gli sciabecchi, derivati dalle galere ma di più grandi dimensioni e con una velatura più complessa costituita da randa, trinchetto e marabutto. Gli sciabecchi all'occorrenza potevano essere mossi anche a remi.

 

Arrembaggi ed incursioni

La strategia generalmente adottata dai corsari per azioni sul mare consisteva nell'appostarsi in una insenatura o dietro un'isolotto, ed attendere il transito di una nave commerciale. Quando ciò si verificava, con una azione fulminea, sfruttando l'agilità e manovrabilità delle loro imbarcazioni, veniva sbarrato il passo alla sfortunata nave-bersaglio che successivamente veniva arrembata. In tale operazione venivano generalmente utilizzate più imbarcazioni coordinate tra loro.

Quando ogni resistenza era vinta i corsari si impadronivano delle mercanzie e prendevano prigionieri gli uomini dell'equipaggio che venivano poi condotti nelle prigioni appositamente allestite in Barberia.

In altre occasioni, quando la consistenza dei loro navigli e le circostanze lo consentivano, anzichè ricorrere all'agguato i corsari praticavano una vera e propria caccia alle loro prede, esponendosi ovviamente al rischio di imbattersi in flotte nemiche in grado di batterli.

Spesso le incursioni dei corsari erano invece rivolte verso villaggi, paesi e talvolta piccole città costiere. I bersagli prescelti si trovavano generalmente in posizione isolata rispetto a centri fortemente presidiati, in condizione pertanto da non poter ricevere soccorso prima che l'azione dei corsari fosse già terminata.

Sovente tali bersagli si trovavano su piccole isole dove risultava relativamente agevole per gli incursori sopraffare le esigue guarnigioni militari a loro difesa e poi agire indisturbati contro le popolazioni locali

Mercato degli schiavi

Jean Léon Gérôme  

Rimasta impressa nella memoria, fu sicuramente la scorreria condotta da Khayr al-Din, detto Barbarossa, che nel 1544 deportò come schiavi gran parte degli abitanti dell’isola del Giglio.

I grandi ammiragli corsari, nel periodo d'oro della guerra di corsa scorrazzavano con grande libertà nel Mediterraneo alla guida di possenti flotte di decine di galere. I loro movimenti erano seguiti con grande apprensione dalle popolazioni della costa che, assolutamente impossibilitate a difendersi dalle loro fulminee incursioni, potevano soltanto contare su un loro tempestivo avvistamento, che lasciasse la possibilità di fuggire, sulla fortuna o sull'intervento di flotte cristiane amiche.

L'attività dei corsari si traduceva in un profitto: ovviamente per loro stessi, per l'armatore e per quanti contribuivano al mantenimento delle navi e degli equipaggi, per le autorità e notabili del luogo, ma anche per l'intera popolazione che festeggiava sempre il ritorno delle navi corsare dalle loro scorrerie...

Accanto al forte introito derivante dalle merci predate, vi era quello non minore derivante dal riscatto e dal commercio degli schiavi. Questi venivano distinti a seconda che fossero personaggi di rango elevato o comunque facoltosi, o semplici villici o soldati.

Per i primi vi era sempre un consistente riscatto, chiesto mediante contatti con i familiari, sollecitati dall'una o dall'altra parte, che restituiva loro la libertà; i secondi venivano invece normalmente utilizzati come manodopera gratuita a terra o come rematori sulle galere.

Meknes - Le "Prigioni dei cristiani"

Gli intermediari tra i familiari dei cristiani rapiti e le autorità locali degli stati berberi erano congregazioni religiose sorte appositamente a tale scopo o loschi faccendieri che lucravano indecentemente su tale attività.

Spesso degli schiavi veniva effettuato un vero e proprio commercio in mercati, nelle vicinanze dei bagni penali.

Anche le donne erano destinate alla manovalanza per lo più nelle case dei notabili o personaggi facoltosi del luogo. A quelle più belle toccava invece la sorte di dover soddisfare le voglie dei raìs, mentre le più fortunate potevano aspirare a far parte degli harem dei Pascià.

I bambini venivano educati nella religione islamica alle arti della guerra e della corsa, e molto spesso da grandi rinfoltivano i ranghi di giannizzeri e corsari.

I corsari barbareschi a Monte Argentario e dintorni

Agli inizi del 1400, sotto il dominio della Repubblica di Siena, Monte Argentario era ben noto ai naviganti per i suoi due bei porti -"ricetti di galee"- Porto Santo Stefano e Porto Ercole. Per il resto era a disposizione degli orbetellani e dei portercolesi per il pascolo del bestiame, la coltivazione delle vigne, ed il legname e il carbone che i suoi boschi fornivano in abbondanza.

Orbetellani e portercolesi a loro volta, unitamente al bestiame che vi allevavano, erano a disposizione dei corsari barbareschi, e "mala gente" in genere, che con una certa assiduità vi sbarcavano per l'"acquata", per "far carne" e per "arruolare" qualche schiavo per le loro galere.

Di strutture di avvistamento e difensive ce n'erano ben poche, concentrate soprattutto sulla costa orientale del Monte, intorno a Porto Ercole.

Nel corso del secolo mentre Monte Argentario passava di mano in mano a governanti pubblici e privati e qualche nuova struttura difensiva veniva eretta sulla costa ( la fortificazione di Porto Ercole, la torre dell'Argentiera, la torre dell'Avvoltore....) il quadro rimase sostanzialmente immutato: i corsari continuarono in tutta tranquillità la loro assidua frequentazione.

Nè la sostanza mutò nella prima metà del 1500.

Nel 1532 il sindaco ed i priori di Porto Ercole scrivevano: "... essendo assediati dalle fuste di Turchi et mori che no possiamo uscire dalle porte, né attendere alli lavori che habiamo nel Alticosto (Tricosto- sul Monte Argentario-), benchè pochi siano, per non esserci bestiami da lavorare...(°)".

I corsari tenevano i poveri abitanti in "angustia, pigliando sempre qualche persona...(°)

Se fino allora non vi furono da parte dei corsari azioni eclatanti che coinvolsero un gran numero di individui ciò fu dovuto più alla mancanza di bersagli sostanziosi sull'Argentario che alla volontà di quelli .

Così non fu nel 1544. L'estate di quell'anno fu di lacrime e sangue per gli abitanti di Talamone, Porto Ercole ed isola del Giglio.

Il corsaro Ariademo Barbarossa, dopo aver passato l'inverno sulla costa francese, se ne stava tornando in patria costeggiando la penisola alla guida di una numerosa ed armatissima flotta. E tanto per non fare un viaggio a vuoto, strada facendo inviava qua e là i suoi luogotenenti a devastare e saccheggiare paesi e cittadine sulla costa della penisola.

Il 10 giugno toccò a Talamone. Dopo un incessante bombardamento la guarnigione del Castello e coloro che vi si erano rifugiati furono costretti a capitolare. Il paese fu saccheggiato e molti abitanti furono condotti schiavi sulle galere.

Prima di ripartire il Barbarossa volle levarsi lo sfizio di vendicarsi di un talamonese gran cacciatore di corsari, Bartolomeo Peretti, suo acerrimo nemico, che aveva osato, qualche anno prima, invadere e saccheggiare la sua isola natìa, Lesbo.

Il Barbarossa fece dissotterrare i suoi resti (era morto qualche anno prima), li fece bruciare e fece spargere le sue ceneri per la campagna.

Toccò poi a Montiano che fu saccheggiata ed incendiata.

Il 12 giugno fu attaccata Porto Ercole. I pochi abitanti del paese non provarono neppure a difendersi, ma si consegnarono spontaneamente al Barbarossa dietro promessa di un po' di clemenza. A difendersi ci provò invece la guarnigione della Rocca, ma dopo un violentissimo bombardamento anch'essa si arrese.

Porto Ercole fu saccheggiata e distrutta "...fu messo il focho a li quattro canti della Terra, e non vi è restata una sola casa integra, perchè il focho vi è stato de continuo tre giorni (°)" .

Il 17 giugno fu la volta dell'isola del Giglio. Per gli sventurati abitanti del Castello non ci fu

Molti decenni dopo i gigliesi....

nessuna possibilità di salvezza. Quasi tutti, oltre 600, furono tratti in schiavitù sulle galere mentre il paese veniva saccheggiato e devastato. I notabili del paese, tra cui il sindaco, il notaio e il parroco, furono decapitati.

Da allora l'isola rimase praticamente deserta per molti decenni prima di essere ripopolata, su incentivi del Granduca di Toscana, da immigrati di diversa provenienza.

Anche Montecristo, sebbene abitata soltanto dai monaci del monastero di S. Mamiliano, ivi esistente, e da pochi coloni fu ripetutamente visitata dai corsari. Lo fece il Barbarossa nel 1534, forse alla ricerca di quel mitico tesoro di cui in quei tempi si parlava, e successivamente, vent'anni dopo, il turco Dragut.

Quest'ultimo, dopo aver saccheggiato il monastero,

I. di Montecristo  

Abbazia di S.Mamiliano

deportò tutti i monaci e coloni sulle sue galere. Da allora, e per quasi tre secoli, l'isola rimase disabitata.

Con la formazione dello Stato dei Presidi e la conseguente messa a punto di una capillare rete di torri di avvistamento sulle coste, ma anche per il forte contrasto ai navigli corsari da parte delle marinerie cristiane, le incursioni barbaresche sull'Argentario nella seconda metà del 1500, pur senza esaurirsi, diventarono più sporadiche e di limitate conseguenze.

Altrettanto avvenne nel secolo successivo ed oltre ancora, fino all'esaurirsi, verso la fine del 1700, del fenomeno corsaro nel Mediterraneo.

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(°)  Alcune informazioni e citazioni sono state tratte dal libro di G. della Monaca: La presa di Porto Ercole

 

Due rapimenti tra storia e leggenda sulla costa della Toscana

Nel Monastero di Montenero (LI) un ex voto consistente in un vestitino da odalisca, col corpetto

ricamato tutto d' oro e le babbucce di velluto color porpora ricorda l'episodio di un rapimento da parte di corsari in quelle terre.

Un cartellino racconta in poche righe:

«Verso il 1800 - spiega la scritta -, la giovinetta Ponsivino, trovandosi sul lungo mare, presso Antignano, fu rapita dai turchi che la portarono a Costantinopoli per l' harem del sultano. Di fronte all' ignominia che la sovrastava, invocò fervidamente la Madonna di Montenero che non tardò ad ascoltarla. Un giorno si vide arrivare nei giardini dell' harem il proprio fratello che, con somma accortezza e non senza un aiuto speciale della Vergine, come attesta il voto, riuscì a ricondurla a Livorno»

Nelle terre di Maremma è molto nota la vicenda della “Bella Marsilia”: una giovane di sedici anni rapita dai corsari e condotta alla corte del Sultano.

Una vicenda dove verità storica e leggenda si intrecciano in modo inestricabile.

Margherita era la figlia maggiore della famiglia Marsili, nobili senesi, parenti degli Aldobrandi. Nella bella stagione, di tanto in tanto messer Giovanni Marsili, la moglie Bona, Margherita e gli altri quattro figli erano soliti soggiornare nel loro castello su un poggio dell'Uccellina, vicino al mare, non lontano da Grosseto.

Così anche quella primavera del 1543

In quei giorn Ariadeno il Barbarossa, scorrazzava per il mare dell'Elba con il suo numeroso naviglio sguinzagliando i suoi luogotenenti a destra e a manca in cerca di bottino e prigionieri.

Uno di questi, un certo Nizzàm, sbarcò con i suoi uomini, presumibilmente all'alba com'erano soliti fare i corsari, a Cala del Forno e sotto la guida di un tale Manfredi, detto Cernia”, si avviò verso il castello dei Marsili.

Le scarne difese furono ben presto sopraffatte, il castello saccheggiato e gli sventurati presenti fatti prigionieri. Non si sa cosa sia avvenuto di questi. Si sa con verosimile certezza che Margherita, allora avvenente sedicenne dai capelli rossi fu catturata e condotta al Barbarossa. Questi, a sua volta, pensò bene di farne dono al sultano Solimano il Magnifico, a Costantinopoli, affinchè arricchisse il suo harem di concubine.

Margherita non tornò più in Maremma, ma la memoria di lei ancora vive in queste terre.

La “Torre della Bella Marsilia”, che svetta tra le quercie su un colle dell'Uccellina ne è testimonianza.

Qualcuno ha voluto dare un seguito a questa vicenda, identificando in una certa Rosselana, concubina dell'harem di Solimano, la sfortunata Margherita.

Kurren Sultana, questo il nome assunto da Rosselana, abiurò il cristianesimo e si convertì all'islamismo. Nell'harem si servì con tale maestria delle sue doti di seduzione e spregiudicatezza, da diventare in breve la favorita del sultano, e successivamente la moglie. Ebbe da lui cinque figli.

Non contenta della posizione raggiunta, volle che uno di questi diventasse successore di Solimano sul trono di Costantinopoli. A tal fine, intrigò a corte a tal punto da convincere il marito che un altro suo figlio, Mustafà, avuto da un'altra concubina e legittimo successore al trono, tramasse contro di lui per destituirlo ed ucciderlo.

Solimano cadde nella trama e fece strangolare al suo cospetto, secondo la legge fraticida molto in auge alla corte ottomana, l'innocente Mustafà.

Avvedutosi del raggiro, Solimano fece giustiziare notabili e cortigiani coinvolti nel complotto. Proprio Rosselana invece, l'artefice principale, si salvò dopo essere riuscita a convincere il sultano della sua innocenza. Alla sua morte, Rosselana fu sepolta in un mausoleo, dove molti anni dopo fu sepolto accanto a lei, lo stesso Solimano.

Ma questa identificazione di Rosselana con la “Bella Marsilia”, gode di scarsissimo credito presso gli studiosi che invece ritengono la sudetta Rosselana una concubina di origine slava. Una delle tante, più spregiudicata delle altre.

Per noi, gente di Maremma, la “Bella Marsilia” scomparve sulle sponde del Bosforo, non si sa come né quando, ma sicuramente piangendo la sua bella terra lontana.

 

I corsari barbareschi Le torri dell'Argentario La guardia

2008 - Capodomo - di Raul Cristoforetti