
A bordo della Nave Ospedale Gradisca
E’ la mattina del 29 marzo 1941 e la nave ospedale Gradisca proveniente
da Valona giunge a Taranto per sbarcare circa settecento feriti e
ammalati provenienti dal fronte albanese. Arriva l’ordine di affrettare
lo sbarco e salpare di nuovo per una urgente missione di salvataggio
(nel punto lat. 35° e 30’, long. 20° e 50’). Alle tre e mezza del
pomeriggio la Gradisca molla gli ormeggi, dirige verso gli sbarramenti,
segue la pilotina lungo le rotte di sicurezza ed inizia la navigazione
per il punto ordinato, alla massima velocità. Un vento teso da sud ovest
si somma al mare agitato.

Il 30 la navigazione prosegue con una media di 14 nodi. Alle 19.25 della
sera si avvistano nafta e rottami (lat. 35° 33’, long. 20° 55’). Ci si
porta nel punto dove gli inglesi hanno segnalato una zattera con
naufraghi ma non si avvista niente, nonostante si incroci in zona con
rotte diverse. Durante la notte si abbassa la velocità a 6,5 nodi.
Il 31, alle 00.30 arriva un messaggio di Supermarina su avvistamenti da
parte di nostri velivoli di galleggianti e si dirige in quella zona. Al
mattino si avvistano due mine che si tenta di far esplodere. Alle 10.35
si recuperano due cadaveri che vengono identificati. Poco dopo un aereo
tedesco sorvola la nave a bassa quota, senza alcuna comunicazione. La
sera alle 19.16 si avvistano zattere e si incrocia per verificare se vi
siano naufraghi. Si mandano delle motolance che recuperano solo sei
cadaveri che vengono tutti identificati per nome o numero di matricola.
Uno di essi era il SottoCapo Segnalatore Leonardo Pepe.
Gli aerei previsti all’alba per aiutare nelle ricerche, secondo un
messaggio di Supermarina, non si sono visti. Solo alle 17.40 ne passa
uno senza fornire alcuna indicazione utile.
Velocita 14 miglia e mare più calmo. Alle 21 delle grida: 4 naufraghi su
una zattera vengono salvati (sono dell’Alfieri) in lat. 35° 41’,long.
21° 11’. Su loro suggerimento si cerca in zona a velocità dimezzata.
Il tempo rinfresca, vento teso e mare agitato. Alle 5.25 si avvista una
zattera con 8 naufraghi che vengono salvati. Con la luce del giorno si
avvistano altre 17 zattere e si salvano 114 naufraghi dell’Incrociatore
Fiume e del caccia Alfieri.
Alle 12.20 passa un aereo tedesco ad alta quota. Poco dopo partecipa
alle ricerche un aereo italiano della Croce Rossa: nonostante il
contatto radio, non fornisce indicazioni utili. Alle 15.07 un Sunderland
fa due giri bassissimo sulla Gradisca e prosegue. Il mare si calma.
2 aprile 1941. Si amplia l’area delle ricerche. Intorno alle 9 e mezza,
si incontrano 16 zattere tutte vuote, forse di naufraghi già salvati.
Nonostante le cure, muore un naufrago per assideramento, shock e ferite.
Viene avvistata una mina, ma non si riesce a farla esplodere con colpi
di moschetto.
Alle 14.12 nel punto lat. 35° 56’, long. 21° 14’ si avvistano due
zattere e vengono salvati 21 naufraghi del Carducci. Dietro loro
indicazioni si cercano in zona altre zattere di quella nave. Tra le 15 e
le 16 passa un aereo tedesco, uno inglese, uno italiano.
3 aprile 1941. Si amplia ancora di più l’area delle ricerche.
Dalle 12.38 alle 14.06 si avvistano una dopo l’altra 4 zattere e si
salvano 14 naufraghi del Carducci. In seguito passa un aero inglese, uno
italiano, uno tedesco che sgancia delle bombe ad una certa distanza.
4 aprile 1941. Nella mattina si trovano zattere già visitate e si vedono almeno 200 cadaveri.
5 aprile 1941. Tempo fosco, vento, mare agitato. La mattina si trovano
tre zattere vuote. Nel pomeriggio si incontra di nuovo una motolancia
semiaffondata. Alle 20 si abbandonano le ricerche come da messaggio
Supermarina e si dirige per Taranto, poi per Messina.
6 aprile 1941. Si celebra la Messa a bordo.
7 aprile. Arrivo a Messina alle 8.30. Sbarco dei naufraghi dalle ore 15.
Tra questi 55 vengono portati in ospedale e 105, ristabiliti, vengono
mandati al deposito CREM.
Nel rapporto di fine missione si fanno alcune osservazioni, proponendo delle soluzioni:
Le ricerche notturne non hanno avuto successo per la mancanza di un buon
proiettore, perché quello disponibile è insufficiente. Bisogna dotarsi
di luce adeguata.
Molte zattere non poterono essere gettate a mare perché legate e nessuno
aveva un coltello. Ci vorrebbe un contenitore inossidabile per ogni
zattera dove conservare l’attrezzo.
Ogni zattera dovrebbe avere scompartimenti fissi per viveri e acqua,
perché nel buttarla a mare eventuali contenitori possono andare perduti.
Durante la missione sulla Gradisca sono stati ricoverati 161 militari così ripartiti:
13 ufficiali
28 sottufficiali
119 sottocapi e comuni
1 cuoco (civile)
Commento
Il sobrio rapporto mette in luce molti dettagli interessanti del
difficile ruolo di una nave ospedale nel periodo bellico. Non si fa in
tempo a compiere il trasporto di centinaia di feriti che già bisogna
salpare con urgenza, dimostrando la necessità di un impegno
instancabile. Bisogna anche evitare le mine, che certo non fanno
distinzioni. Si scruta l’immensità del mare e non è facile trovare i
superstiti. Spesso sono così malridotti che bisogna andare a ispezionare
da vicino, con una lancia, ogni zattera che contenga dei corpi.
Talvolta si trovano sopravvissuti e talvolta no. Quando anche si vedano
centinaia di cadaveri è preferibile non fermarsi a raccoglierli per non
perdere tempo, se esiste ancora la possibilità di trovare marinai in
vita. Ammesso che le indicazioni sulla posizione siano giuste, mare e
vento possono avere sparso su una vasta area le zattere. Si cerca quindi
di allargare la zona esplorata, mentre il tempo passa. Le molte ore di
buio rendono inefficaci le ricerche. In questi casi ci si rende conto di
quanto siano importanti piccoli accorgimenti e semplici attrezzature
che possono fare la differenza: un proiettore più potente sulla nave,
migliore preparazione dei mezzi di salvataggio. Il cielo è attraversato
da velivoli di tutte le nazionalità, che rispettano la nave ospedale, ma
è molto raro poter collaborare efficacemente o ricevere informazioni
utili. Giunge infine l’ordine di sospendere le ricerche. Nel frattempo
la nave è già divenuta un ospedale a tutti gli effetti, praticando le
prime cure e le terapie necessarie. Per qualcuno può essere troppo tardi
comunque.

Relazione Sanitaria
Il Colonnello Medico ha preparato un eccellente rapporto di fine
missione per Marisan a Roma, con evidente interessamento personale per i
feriti del disastro. La Relazione Sanitaria allegata al rapporto merita
una lettura, in quanto permette di immaginare le dure vicende dei
naufraghi. Ne tentiamo un riassunto, senza avere competenza medica.
Si trattava di naufraghi recuperati su zattere Carley rimasti in mare da
3 a 6 giorni, in condizioni di digiuno assoluto. Molti hanno sopportato
un bombardamento navale (pressione, schegge), alcuni con ferite e
ustioni, oltre agli effetti del gettarsi in mare da una certa altezza e
salire su zattere in condizioni difficili. A questo si è aggiunta la
permanenza in posizioni scomode e con le gambe immerse nell’acqua,
l’esposizione al freddo intenso della notte e alle intemperie, o al sole
di giorno. Inoltre gli eventi bellici e i progressivi decessi hanno
inciso psicologicamente, insieme alla perdita di ogni speranza. Il
digiuno ha portato a uno stato di collasso, fatale per molti, mentre i
superstiti erano dimagriti, incapaci di reggersi, con attività cardiaca
fiacca. Il freddo ha causato assideramento più o meno grave,
temperatura corporea diminuita, polso impercettibile. L’apparato
respiratorio non ha risentito molto, registrandosi poche broncopolmoniti
e qualche bronchite. L’immersione in acqua salata ha avuto effetti
particolari sulle ferite da arma da fuoco, ma con una sterilità che poi è
cessata appena portati a bordo. Il bisogno più pressante manifestato da
tutti, dopo aver chiesto l’acqua, è stato di poter dormire. Superata
l’ipotermia si è manifestata la febbre, anche elevata, forse causata
dall’esposizione solare e dalla permanenza in acqua salata (febbre da
sale). Molti sintomi sono scomparsi in alcuni giorni. Più persistenti
sono stati casi di particolari disturbi all’apparato digerente
(singhiozzo, vomito alimentare e biliare, gastriti). Dal punto di vista
psicologico si sono riscontrati casi di eccitazione, mentre altri erano
apatici e indifferenti. Si sono avuti casi di allucinazioni e perdita
del senso di realtà. Secondo i superstiti molti naufraghi, perduta la
ragione, si sono gettati in mare e sono scomparsi. Per tutti coloro che
mostravano di aver risentito del trauma psichico, si è cercato di
coadiuvare le cure con assistenza spirituale e con la partecipazione
volenterosa dell’equipaggio. Si sono visti questi superstiti, moribondi,
inerti, sfiniti, riprendersi e rifiorire. Al momento dello sbarco
avevano riacquistato le energie e la consapevolezza, riconoscenti per le
cure.
 Le
salme dei caduti vengono sbarcate nel porto di Messina dalla Regia Nave
Ospedale Gradisca, con gli onori militari. Immagine fornita dal Mar.
Cappelluti (provenienza dall'Ufficio Storico della Marina Militare).
La nave ospedale Gradisca
Era un piroscafo di origine olandese varato nel 1913 di 13.870
tonnellate di stazza e 16 nodi di velocità. Fu acquisito negli anni
trenta dal Lloyd Triestino. Nel maggio 1941 rimase danneggiato presso il
Pireo per urto contro un ostacolo sommerso. Dopo le riparazioni nel
luglio 1941, venendo da Salamina, rimase insabbiato presso Capo Kara,
liberato con difficoltà dopo diversi giorni. Nell’aprile 1942 partecipò a
uno scambio di prigionieri con i britannici. Fu sorpreso a Patrasso
dall’armistizio, tentò di allontanarsi ma fu costretto da idrovolanti
tedeschi a portarsi a Prevesa. Nell’aprile 1945 era a Venezia,
parzialmente smantellato. Tornò nel dopoguerra al Lloyd Triestino. Nel
gennaio 1946 rimase arenato presso Gaudo. Gravemente danneggiato da
burrasca, non era più utilizzabile. Rimesso sommariamente a galla in
aprile, fu portato a Venezia per la demolizione.
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Le nove salme (8 corpi recuperati nelle ricerche più il decesso a bordo)
furono sbarcate dalla Gradisca, ricevettero gli onori militari e
vennero sepolte nel Santuario del Cristo Re di Messina, con una lapide
che ricordava tutti i numerosi caduti nella tragedia di Capo Matapan. In
seguito alcune di esse vennero rimosse dalle famiglie per sepoltura
privata e oggi solo due marinai vi sono sepolti: uno di essi è Leonardo
Pepe. La presenza della lapide è stata l’occasione per una Messa in
ricordo di tutte le vittime di Capo Matapan, celebrata il 29 marzo 2010.
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